Ritorno alle origini

Libro d'artista stampato a secco con torchio calcografico su carta graphia imbevuta di caffè; testi di Giosuè Carducci, Riccardo Selvatico e di due scrittori anonimi, maggio ’17

Il libro si apre con la frase la terra separa, il mare unisce tutto perché le terre di cui parlo sono terre differenti, con dialetti e tradizioni distinti, legate dal fatto che hanno tutte sbocco sul mare. Per ogni terra ho preso versi di una poesia in dialetto che parla della regione, della sua bellezza, dei suoi tratti caratteristici.

Le poesie si trovano nel foglio ripiegato in alto: aprendolo piano piano, mi apro sempre di più a voi, mostrando la storia mia e della mia famiglia. Inoltre i fogli sono imbevuti di caffé, il cui profumo mi ricorda la tradizione italiana; il nastro che chiude il libro, invece, è bordeaux, colore del vino, amato dai miei nonni.

Per il Veneto mi sono soffermata su Venezia, la città della mia nonna paterna e città natale di mio padre. La poesia racconta la sua unicità, la laguna e Piazza San Marco. Ricordo la Toscana, terra di mio nonno paterno. Ho scelto una poesia sulla Maremma, con le sue colline che si affacciano sul mare. Le Marche, invece, sono la regione cui sono legata emotivamente: da quando avevo meno di un anno ho trascorso lì tutte le mie estati e ho i suoi paesaggi negli occhi e nel cuore: le colline verdi che si tuffano nel mare, il profumo di fiori che si mischia alla brezza marina quando si fanno le biciclettate sulla riva, la gentilezza delle persone.

Ogni cosa di quella terra mi colpisce e ho voluto renderle omaggio, nel mio libro, con una poesia che parla del profumo ricordato da alcuni marchigiani lontani dalla loro regione.

Ultima terra dei miei natali è la Puglia, patria dei miei nonni materni. Respiro un po’ della sua aria ogni volta che i miei nonni parlano con il forte accento pugliese, ogni volta che mia madre racconta delle amicizie che aveva giù nel paese e ogni volta che mia nonna racconta della sua infanzia. Sento le tradizioni pugliesi anche attraverso i ricordi delle visite al paese dei miei nonni: il sole al tramonto spariva dietro l’orto dei miei prozii e dietro le colline.
Grazie alla realizzazione di questo libro ho ritrovato le mie origini, nascoste in un cassetto del mio cervello. Ho ricordato i profumi delle mie terre, il viso dei miei nonni mentre narrano della loro infanzia: dettagli che pensavo di avere dimenticato.

Spero che leggendo questo libro riaffiorino in voi ricordi. E che ne facciate tesoro.

Martina Berti

A Venezia

No gh’è a sto mondo, no, Cità più bela,
Venezia mia, de ti, per far l’amor;
No gh’è dona, nè tosa, nè putela
Che resista al to incanto traditor.

Co’ un fià de luna e un fià de bavesela
Ti sa sfantar i scrupoli dal cuor;
Deventa ogni morosa in ti una stéla
E par che i basi gabia più saor.

Venezia mia, ti xe la gran ruffiana,
Che ti ga tuto per far far pecai:
El mar, le cale sconte, i rii, l’altana,

La Piazza e i so colombi inamorai,
La gondola che fà la nina-nana...
Fin i mussati che ve tien svegiai!

Riccardo Selvatico

Nota biografica
Riccardo Selvatico, commediografo e poeta, nasce a Venezia nel 1849. Consegue la laurea in legge nel 1873 presso l'Università di Padova. Nel 1890 viene eletto sindaco di Venezia a capo di una giunta progressista e resterà in carica fino al 1895; le successive elezioni, vengono infatti vinte dalla coalizione clerico-moderata (sostenuta dalla curia veneziana), sull'onda di una campagna di stampa condotta contro l'operato della giunta Selvatico, considerata eccessivamente laica. Nel corso del suo mandato ha comunque modo di ideare la prestigiosa istituzione che ancora oggi contribuisce a fare di Venezia una delle principali città di cultura. È infatti sua l'idea di dare vita ad un'esposizione d'arte internazionale; da questa idea, sostenuta da altri intellettuali veneziani, nasce la Biennale di Venezia. Tra le commedie, di ambientazione popolare e in dialetto, sono La bozeta de l'ogio e I recini da festa. Muore a Biancade nel 1901 ed è sepolto a Venezia nel cimitero monumentale di San Michele.

Nostalgia

Tra le nubi ecco il turchino
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l’Apennino
Brontolando il temporale.
Oh se il turbine cortese
Sovra l’ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!

Non d’amici o di parenti
Là m’invita il cuore e il volto:
Chi m’arrise a i dí ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d’ulivi
Bel desío mi chiama là:
Fuggirei da’ lieti clivi
Benedetti d’ubertà.

De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorëi balconi!
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fósco
I cavalli errando van,

Là in maremma ove fiorío
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co ’l tuon vo’ sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.

Giosuè Carducci
Rime nuove, 1861-1887

Nota biografica
Giosuè Carducci nasce a Valdicastello nel 1835. Dopo l'infanzia trascorsa in Maremma, si iscrive alla Normale di Pisa dove consegue la laurea in lettere a soli vent'anni. Nel 1860 gli viene assegnata la cattedra di letteratura italiana all' Università di Bologna, che ricoprirà fino al 1904. Nel 1871 conosce Carolina Cristofori Piva, che lui ribattezza Lidia e che sarà la Musa ispiratrice di moltissime sue liriche. Tra 1869 e 1879 compone i Giambi ed Epodi. Nel 1877 escono le prime Odi barbare, in cui tenta di riprodurre, con risultati alterni, nel metro dei poeti moderni, ritmi e metri greci e latini; ad esse seguiranno le Nuove odi barbare (1882) e le Terze odi barbare (1889), oltre alle Rime nuove (1887). Nel 1881 muore Lidia, e Carducci inizia un'intensa attività pubblicistica, collaborando a riviste prestigiose; è ormai diventato il rappresentante della cultura ufficiale, e nel 1890 è nominato senatore. Nel 1898 pubblica la sua ultima raccolta, Rime e ritmi, due anni dopo aver lasciato l'insegnamento. Si spegne a Bologna nel 1907; è il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la Letteratura nel 1906.

Lu sole sta scende ‘mmienzu mmare
E cull’urtima luce ca è rimasta
Lu cielu ti culuru sta si ‘mpasta
E mmille sfumature sope fare.
Ti la macchia sta bbene ‘nnu profumu
E ‘mbiscatu cu ll’umitu ca ‘mpeddha,
Cu quiddhu ti la frasca e la murteddha,
Lu ‘ndore sta ssi sente ti lu tumu.
Cusì questa sciurinata si nd’è ssciuta,
Lu sole cu nnui già s’è ccurcatu
E cu ll’addhi nel frattempu sta ssi azza;
Piccè st’umanità è cusì spartuta,
Lu core nuèsciu ggh’è cusì malatu
E tanta tiscraziata questa razza?

Anonimo

Se c’era ‘na bellezza, per marina
Edèra quell’aria fresca, sopraffina
E quel prefùme de seppis de sardò:
Era i regali del maru per tutti no’.
Edèra el maru che ‘guardài, passènnu
Pure dai ‘sti ‘iguletti, e ‘nco’ ridennu
Pe’ l’allegria che tu te retrùai
Se pure de fuga, cchi de ggiò passai.
Diteme ‘o’, cume se po’ campa’?
Tuttu ‘st’infernu, nun se po’ gambià?
‘Ulèmu tuttu cum’edèra prima,
La lonna, la baa de ‘entu sopraffina,
E ‘istu, pure de da longue l maru
E quel prèfume de seppia e calamaru
Ulèmu el maru nostru retruà:
El paradisu nun se po’ scurda’.

Anonimo