Il livornese assente

di Marco Ceccarini

Era un giorno di febbraio, forse marzo, del 1994. Sfogliando Il Tirreno, giornale per il quale scrivevo e che ogni mattina, anche per dovere di ufficio, leggevo e rileggevo con certosina attenzione, fui attratto da un trafiletto il cui titolo suonava più o meno così: lo scrittore Carlo Coccioli si è trasferito a Livorno.

Erano, quelli, anni per me intensi e straordinari. Laureato in Storia a Pisa, avevo frequentato un corso di specializzazione in Psicologia a Grosseto e Roma, dato che allora si poteva far ciò anche con le lauree umanistiche, ed ero al bivio: giornalista o psicologo? Di certo, da sempre, mi guidava la curiosità. Nel frattempo, però, mi dedicavo a tempo pieno al giornalismo e Il Tirreno, oltre che a Livorno, mi aveva già impiegato nelle redazioni di Montecatini e Piombino.

Qualche anno prima avevo tentato di conoscere Giorgio Caproni, che allora a Livorno pochi valorizzavano, ma una volta trovato l’indirizzo romano e il telefono, non avevo avuto il coraggio di comporre quel numero. Si era, in quel caso, tra il 1988 e il 1989. Quando un giorno di gennaio del 1990 seppi che il grande poeta, maestro elementare, critico letterario e traduttore, se n’era andato per sempre, non aspettando certo il mio tergiversare, mi resi conto che quella perdita di tempo mi era costata assai cara. L’idea di incontrare e conoscere personalmente il poeta dei “Versi livornesi”, opera che mi aveva incantato, sarebbe per me rimasta una chimera.

Anche e soprattutto per questo, quando lessi che Coccioli si era stabilito a Livorno, mi dissi che non dovevo, non potevo, lasciarmi sfuggire l’occasione. Era il cielo che mi dava questa opportunità. Potevo realizzare un sogno, un’idea, una fantasia.

Nel 1980 frequentavo la terza liceo scientifico all’Enriques di Livorno. Non andavo male, ma quell’anno mi prese così, perdevo tempo, non concludevo. Così i miei genitori, per farmi entrare il latino nella testa, mi mandarono a ripetizione, come si diceva allora, da una professoressa in corso Mazzini, nel pieno centro di Livorno.

Ebbene, fu proprio di ritorno da una di quelle lezioni prese dalla professoressa Elisabetta Caputi, questo il suo nome, che un giorno mi fermai a un’edicola in piazza Attias, giusto per curiosare tra le novità editoriali. Lì vidi che la Bonechi di Firenze stava avviando la pubblicazione di un’opera a fascicoli dal non troppo suggestivo titolo “La Toscana paese per paese”, dedicata alle città e ai borghi toscani. Soldi in tasca, anche data l’età, non ne avevo molti. Ma l’idea di iniziare la raccolta di una pubblicazione del genere, mi incuriosì. Feci un sacrificio ed acquistai il primo fascicolo.

Parlare di quasi trecento comuni di cui nove capoluoghi di provincia, perché allora Prato non era ancora capoluogo, non era cosa facile. Nonostante la giovane età, me ne rendevo perfettamente conto. Ma gli autori della Bonechi erano bravi. Descrivevano i tratti storici e geografici od ambientali delle differenti realtà narrando vicende ed aneddoti, illustrando situazioni, pennellando curiosità o personaggi e citando monumenti e palazzi riuscendo sempre a trovare, per ogni centro urbano, qualcosa di inedito e particolare.

Le città capoluogo di provincia venivano trattate meglio. Le voci ad esse relative, infatti, erano introdotte da uno scrittore o da un giornalista illustre, in modo che ognuna venisse proposta nel migliore dei modi. I tre capoluoghi che in ordine alfabetico precedono Livorno, ossia Arezzo, Firenze e Grosseto, erano stati illustrati rispettivamente da Piero Magi, Mario Luzi e Geno Pampaloni, che ne avevano messo in evidenza la storia, l’arte, la letteratura, l’architettura, i personaggi di maggior rilievo, i pittori e gli scultori. Un canovaccio seguito, grossomodo, anche da coloro che avrebbero presentato e che presentarono Lucca, Massa, Pisa, Pistoia e Siena.

Chi descriverà la città di Livorno? Come sarà presentata la più giovane e bizzarra delle città toscane, la meno toscana, che sul piano della storia e dell’architettura non può competere con le altre? Questo in cuor mio mi chiedevo, mentre aspettavo il turno di Livorno.

Livorno, e se non è vero è assolutamente lo stesso: è più vera la Livorno che ho in me in una dimensione fra memoria e amore che l’apparente concretezza reale di una città alla quale non vado con questo corpo da decine d’anni e che probabilmente continua ad esistere senza di me (e fa bene).

Rimasi folgorato. Il nome, Carlo Coccioli, non lo conoscevo. Ma ero solo un diciassettenne ed avevo tutto ancora da imparare. Ne ero consapevole. Mi colpì però il modo unico, straordinario, audace, perfetto nella sua imperfezione, infinito nella sua finitezza, con cui questo Coccioli aveva parlato di una città di cui dopotutto non viveva la quotidianità. In più, sapendo che Livorno non poteva sostenere il confronto sul piano storico ed artistico, quell’autore aveva ribaltato il tavolo, spostato il confronto, descrivendo non fatti o personaggi, non la cultura paludata ed accademica, non i palazzi od i monumenti, ma l’anima della città e dei suoi abitanti, la livornesità, o meglio una certa livornesità filtrata dalla sua nostalgia.

Intrecciando i ricordi familiari e personali con la descrizione di alcuni tratti tipici dei livornesi, dal sarcasmo alla creatività, aveva mescolato episodi di vita vissuta alla fantasticheria, descrivendo Livorno come nessuno aveva mai avuto il coraggio di fare. Con un linguaggio che ti prende, ti avvolge e coinvolge, che ti tiene incollato alla lettura senza neanche rendertene conto, mi aveva fatto passare, come ci fossi stato, dal vecchio stabile rosso sugli scali Novi Lena alle mattine di Pasqua ad Antignano e alla canzone Rondinella pellegrina che ti posi sul balcone, da Montenero ai gelsomini della Cirenaica, dalle risate in faccia ai tedeschi che lo volevano fucilare all’odore dei carciofi dietro la stazione e agli alberelli di La Paz che gli ricordavano quelli di piazza Mazzini, tutto per arrivare a dire che doveva sbrigarsi a prendere casa a Livorno, prima che fosse troppo tardi, promettendo che un istante dopo la morte sarebbe volato verso le isole di Capraia e Gorgona, le più belle del mondo, dove non era mai andato ma che si sognava la notte, per fare un milione di capriole fra le quasi invisibili nuvole di smeraldo nel cielo, ponendo alla fine un quesito: come si chiama adesso piazza Carlo Alberto? Immagino che i Quattro mori e Montenero siano ancora dove lì ho lasciati, sennò che Livorno sarebbe?

Internet nel 1980 era nel mondo dei sogni. Facebook non c’era e tanto meno Google. Scovare qualcuno in qualche parte del globo era proibitivo. Eppure l’oggettiva difficoltà non scoraggiò la mia curiosità. Volevo conoscere quella persona, lo volevo, perché il modo in cui aveva espresso la nostalgia e l’amore per la città che lo aveva visto nascere, e dalla quale mancava da anni, era il modo esatto che anche io, giovane imberbe, avrei utilizzato. In più sentivo che i desideri espressi in quell’articolo erano veri, prioritari, sinceri. Le sue parole affascinanti ed incantate, che mi avevano inchiodato alla lettura e alla rilettura di quell’articolo, in un solo giorno, almeno cinquanta, forse cento volte, mi spingevano in modo naturale verso quella ricerca. Devo aiutare questo signore a ricongiungersi alla sue radici, mi dicevo. Questa era la mia missione.

Non prima di aver rivelato il mio segreto alla professoressa Caputi, che non scoraggiò le mie fantasie, contattai i tipi della Bonechi. Furono gentili, ma concretamente fecero ben poco. Si limitarono a dirmi che abitava in Messico, in modo generico, senza rivelarmi in quale città. Anche se il concetto di privacy era ancora lontano da venire, la misero in atto ante litteram. Ed aggiungo, oggi, anche giustamente. Perché mai avrebbero dovuto dare informazioni personali a un ragazzino che telefonava da Livorno e che, alla domanda sul perché voleva quei dati, aveva risposto più o meno così: perché mi è piaciuta la presentazione alla mia città da lui fatta per la vostra opera a fascicoli. Anni dopo avrei saputo, direttamente da Carlo, che lui stesso aveva dato disposizione di non divulgare i suoi recapiti ed altre informazioni personali senza il suo consenso.

Mi ero messo in testa di contattare l’autore di quell’articolo e perciò scrissi all’Ambasciata messicana di Genova. La quale, sorprendentemente, mi rispose. Anzi, mi telefonò. Una voce femminile, molto cortese, mi riferì in un buon italiano che la persona che cercavo, giornalista e scrittore, era raggiungibile presso una casella postale di Città del Messico, che mi venne fornita. Trascrissi tutto su un’agendina di carta verdazzurra che io stesso avevo costruito incollando alcune pagine di un vecchio quaderno a quadretti ed iniziai ad aspettare il momento giusto per scrivere la lettera.

Il tempo lenisce le afflizioni dell’anima, dice un proverbio. E l’attesa dilata i contorni, distorce il tempo, aggiungo io. Fu così che il mio aspettare, lentamente, trasformò quella che all’inizio era una ferrea volontà in qualcosa da fare domani o meglio dopodomani, ascrivendo il tutto ad una dimensione atemporale, a metà fra illusione e concretezza.

Ma un giorno, nei primi mesi del 1994, lessi quella breve notizia. Ciò mi risvegliò, bruscamente, dal colpevole letargo. L’occasione era da non perdere. Non c’era più tempo da buttar via. Non occorreva che io andassi in Messico o mi inventassi chissà cosa. Il messicano era a Livorno.

Non cercai nemmeno di capire chi aveva scritto o passato quella “breve” senza firma. Magari, al giornale, mi avrebbero chiesto perché lo chiedevo e la cosa era troppo mia per dividerla con qualcuno. Quel giorno sbrigai quanto dovevo sbrigare ed andai il prima possibile a casa, dove cercai il numero sull’elenco del telefono e dove lo trovai, con mio grande stupore e malcelata emozione, senza alcuna difficoltà, come se fosse lì ad aspettarmi. A quel punto non avevo più alibi. Dovevo chiamarlo. Prima che la riflessione mi facesse perdere l’incoscienza, composi quel numero. Rinvenni solo quando una voce, la sua, mi rispose dall’altra parte della cornetta. Insistentemente chiedeva: pronto? pronto?

Non sono uno sfacciato e non ho l’anima del cronista d’assalto. Mai avuta. Però quando qualcosa colpisce la mia attenzione, so cavarmela. Quando rinvenni in me, dovendo pur dire qualcosa, mi presentai come un giornalista che voleva intervistarlo. Lui fu molto gentile ma anche abbastanza sbrigativo. Stava per uscire, disse. Mi invitò però a casa per l’intervista, non prima di avermi chiesto il nome del giornale. Il gioco era fatto.

Un paio di giorni dopo, all’ora stabilita, mi presentai sugli scali delle Ancore, dove da qualche mese aveva preso un appartamento non distante dal mercato del pesce, ed usai quella garbata faccia tosta che talvolta so avere, anzi che mi viene spontanea, quando serve.

Una faccia tosta, detto per inciso, che dopo l’appuntamento mancato con Caproni mi ha portato a conoscere diversi personaggi illustri e che avrei utilizzato, tra l’altro, anche nel cuore dell’estate del 2005 quando chiamai, presso la casa che aveva all’isola d’Elba, nientemeno che Elio Toaff, considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica d’Italia, anche lui livornese. Di Toaff avevo letto l’autobiografia “Perfidi giudei, fratelli maggiori” e di lui mi aveva colpito l’incredibile storia personale. Anche in quel caso avrei usato l’esca del servizio giornalistico. Ma almeno, prima di contattare Toaff, parlai con Adalberto Minucci, direttore di Avvenimenti, settimanale con cui all’epoca collaboravo, il quale mi promise che, se dalla chiacchierata fosse uscito qualcosa di interessante ed originale, lui avrebbe pubblicato un servizio, cosa che in effetti poi avvenne. Ma per Coccioli non era stato così.

Andai da Carlo senza paracadute. Nel senso che non avevo detto niente a nessuno, non a Federico Buti, il caporedattore delle pagine culturali, non ad a Ennio Simeone, il direttore, peraltro persone, entrambe, che erano sempre disposte ad ascoltare le mie idee e le mie proposte. Ma in quel caso l’incontro con Coccioli nasceva da un desiderio così antico e personale che neanche mi sfiorò l’idea di chiedere ai capi se un’intervista potesse interessare, magari per avere un “alibi” per quell’incursione in casa sua. Mi resi conto di ciò solo quando, parcheggiata l’auto, mi stavo dirigendo verso il palazzo dove abitava.

Che figura avrei fatto se lo avessi intervistato e poi al giornale mi avessero detto che non interessava? Questo mi chiedevo mentre salivo le scale. Il terrore della brutta figura s’impadronì del sottoscritto. Questo pensavo, mentre contavo gli scalini, questo mi ossessionava, mentre facevo i convenevoli nel momento dell’incontro e della stretta di mano. Devo trovare una soluzione, mi dicevo. E una soluzione, alla fine, trovai. Anzi, improvvisai.

Come un ragazzino che confessa d’un fiato la propria malefatta aspettandosi l’inevitabile reazione della mamma, una volta sul divanetto del sobrio soggiorno, mi venne spontaneo tirar fuori, senza scuse, il vero motivo per cui lo avevo chiamato, facendo riferimento all’articolo scritto per la Bonechi molti anni prima. Confermai, certo, che scrivevo per Il Tirreno, ma rivelai, in modo candido, quasi catartico, che non avevo programmato alcun articolo, precisando che l’unico motivo che mi aveva condotto lì era il desiderio di conoscerlo. Confessai anche che non avevo praticamente letto nulla o quasi dei suoi libri, solo qualche pagina di “Il cielo e la terra”, un romanzo di ambientazione bellica dalla chiara connotazione religiosa, ed aggiunsi, senza sorta di continuità, che ero contento di vedere con i miei occhi che aveva deciso di dare seguito a quanto annunciato in quel famoso articolo, ovvero trovare una casa a Livorno, prima che fosse troppo tardi. Dopodiché, conclusa la mia elucubrazione, mi misi ad aspettare la reazione. Se fossi stato buttato fuori di casa a calci nel sedere, lo avrei trovato giusto, non mi sarei difeso. Non mi sarei meravigliato, me lo sarei meritato. Invece Carlo sorrise e con l’espressione di uno zio che guarda il nipote che l’ha combinata grossa, con sguardo accogliente, sorpreso ma accogliente, allargò sul volto un sorriso divertito, guardò Javier, poi sorrise di più, fin tanto che il sorriso non divenne una risata, infine disse: meglio così!

Non sapevo nulla di Carlo Coccioli. Non sapevo che era omosessuale. Non sapevo che nel 1990 il Lions club Livorno gli aveva conferito il premio Lions. Probabilmente il premio di quattro anni prima mi era sfuggito perché, in tale periodo, ero spesso fuori Livorno per motivi di studio. Quello che mi aveva portato da lui, quel pomeriggio, era esclusivamente la curiosità di conoscere l’autore dell’articolo che aveva stregato la mia gioventù, pronto ad aiutarlo, se lo voleva, nel ricongiungersi alle proprie origini, alla propria città, che poi era la città della madre Mina, della nonna Ida e delle prozie tra cui la straordinaria zia Nella, sorella di Ida Duranti.

Carlo apprezzò la sincerità. Ciò mi lusingò molto e in un certo senso mi sorprese. L’idea dell’articolo, automaticamente, passò in secondo piano. Fu incuriosito dalla mia curiosità. Parlammo molto. Io uscii da casa sua che era buio. Ma soprattutto venni via con la convinzione che era rimasto piacevolmente colpito da quella mia incursione nella sua vita.

Diventammo amici. Nonostante le molteplici differenze che ci avrebbero potuto distanziare, dalla differenza di età alle convinzioni politiche, dall’orientamento sessuale al credo religioso, diventammo sinceri amici. Divenni amico anche del suo figlio adottivo, Javier, un indio che inizialmente aveva preso a seguirlo come assistente, ma che, un po’ alla volta, era diventato il bastone della sua vita. Tanto che un giorno aveva deciso di adottarlo come figlio attraverso quella che, legalmente, si chiama adozione del maggiorenne.

Con Carlo nacque un confronto intellettuale per me importante, proficuo sul piano umano e professionale, perché lui era davvero venuto a Livorno per ricollegarsi alle proprie radici. Ed io, fin da subito, mi dissi disponibile ad aiutarlo, per quanto possibile, affinché potesse inserirsi nei vari ambienti livornesi che potevano interessarlo.

Carlo era una persona complessa, elaborata, ma anche umile e semplice. Tutt’altro che borioso nel suo privato, sapeva essere indisponente e terribile, all’occorrenza, se entrava in contrasto con qualcuno o soprattutto se di questo qualcuno non aveva o perdeva il rispetto. Non tollerava coloro che erano espressione delle élite dominanti. Di conseguenza, se capiva che mettevi il tuo talento al servizio di un qualche potere, o di una convenienza, ti sbeffeggiava, allontanava, disprezzava, ti buttava contro tutta la sua capacità letteraria, i suoi titoli, la sua cultura. Al contrario, se percepiva che nel tuo cuore albergava il desiderio di onorare la libertà di uomo e se capiva che ti ponevi verso di lui con sincera e disinteressata amicizia, allora era con te generoso e disinteressato ed accettava valutazioni e punti di vista, osservazioni e perfino critiche.

Poiché, uscendo da quel primo incontro, si era rimasti che ci saremmo presto rivisti per concludere la bella chiacchierata, non feci passare molto tempo. Tre o quattro giorni dopo ero di nuovo nel suo salottino a discutere con lui di tutto e del contrario di tutto. O meglio, ad ascoltarlo su tutto e il contrario di tutto. Lo vedevo molto lusingato dal fatto che qualcuno, nell’Italia da cui era fuggito e in particolare nella sua Livorno, fosse interessato alla sua persona e al suo voler rendere giustizia a un destino, come ebbe a dirmi una volta, che lo aveva visto “errante” non solo nel senso di “vagare” ma anche di “sbagliare”.

Parlando con lui, in quei pomeriggi d’inizio primavera, mi persuasi che Coccioli era un uomo capace di entrare in polemica con intellettuali di grosso calibro o politici di rilievo nazionale e un minuto dopo sedersi con te, davanti a un caffè, per parlare di qualsiasi cosa o addirittura per chiederti un parere su una questione all’apparenza banale.

Non ce l’aveva con Alberto Moravia come scrittore. Non era contro la sua letteratura. Vedeva però Moravia come lo scrittore dell’establishment, la voce letteraria di un certo potere culturale, espressione dell’egemonia comunista su gran parte della società italiana del Centro e del Nord. Moravia, per Coccioli, era un ameno sostenitore di quell’ordine costituito, che lui giudicava falsamente progressista, anzi moralista, non dissimile da quello di stampo democristiano che i comunisti affermavano di voler combattere. Carlo, con il sorriso sulle labbra, ironizzava sul fatto che Moravia non aveva mai o quasi mai usato il suo vero nome, che era Alberto Pincherle, per firmare i suoi scritti. Sorrideva di ciò. Ma il punto fondamentale del giudizio di Carlo su Moravia era che questi, secondo lui, era diventato quel che era per la sua organicità politica.

Anche Elio Vittorini non rientrava, per così dire, nelle grazie di Coccioli. Anche lui, come Moravia, era per Coccioli espressione della cultura filocomunista. Una cultura diversa dalla sua. Ma non perché Carlo fosse contrario all’affermazione di nuovi diritti sociali e civili, all’allargamento dei diritti economici delle classi meno abbienti, ma perché quella di Coccioli era una ricerca intellettuale di altra natura, fondata sull’elaborazione di una religiosità comprensiva della dimensione omosessuale, che nulla aveva a che fare con la volontà di interpretare sul piano materiale ed economico la realtà esistente. La ricerca del divino permeava l’intera sua produzione letteraria.

Ugualmente, in Messico, si era posto in conflitto con Octavio Paz, poeta e scrittore, saggista e diplomatico messicano, uno dei letterati madrelingua spagnoli più importante della seconda metà del Novecento, premio Nobel per la letteratura nel 1990. Coccioli non contestava Paz come scrittore o poeta, non era contro la sua letteratura o la sua poesia, ma lo attaccava in quanto i detentori del potere, secondo la sua convinzione, lo avevano eletto, senza vero merito, a voce ufficiale del Messico.

Personalmente, in ogni caso, ho sentito Carlo avere parole più dure e critiche verso Octavio Paz che verso Moravia o Vittorini. La risposta, forse, va ricercata nel fatto che, quando l’ho conosciuto e frequentato, i due scrittori italiani erano già passati a miglior vita, mentre Paz imperversava nel panorama culturale messicano e non solo messicano.

Un giorno, non ricordo se il 15 maggio 1994 o un giorno vicino a quella data, comunque in occasione del settantaquattresimo compleanno, mi trovai a casa sua. Ero passato per riferirgli di una visita medica che doveva effettuare e per la quale, avendone la possibilità, gli avevo procurato un appuntamento. Ero in compagnia di un’amica. Venne fuori, in quel frangente, che il giorno avanti, sì il giorno avanti, ora ricordo, era stato il suo compleanno. Lui non amava festeggiare il compleanno, così almeno ricordo, ma vista la sorpresa mi invitò a pranzo. Javier preparò della carne, forse di maiale, con della salsa di cioccolato. Carlo era golosissimo di cioccolata. Quella carne era squisita. Pranzando, gli raccontai dell’esperienza che avevo appena vissuto alla redazione di Pontedera, dove mi era capitato di raccontare come la piccola città aveva vissuto la vittoria che la sua squadra di calcio, seppure in allenamento, aveva ottenuto sulla Nazionale che si stava preparando ai campionati del mondo. Lui era curioso di sapere, più che del Pontedera, delle emozioni vissute da un piccolo centro di provincia. Era molto curioso. Così come era molto curioso di conoscere aneddoti e curiosità della sua città natale. Dopo pranzo, spontaneamente, mi venne di dirgli che avrei potuto organizzare la sua presentazione, come autore, ai livornesi.

La sera del 6 giugno 1994, sfinito dopo una giornata di intenso lavoro, ma felice per quanto stavo realizzando, varcai con Carlo la soglia della Gaia Scienza. Nei giorni precedenti avevo infatti contattato Franco Ferrucci, che aveva aperto una libreria in via della Madonna cui aveva posto il nome della famosa opera di Friedrich Nietzsche, il quale si era detto disponibile. Avevo fatto uscire l’annuncio sul giornale. Ferrucci aveva diffuso la notizia tra i frequentatori del suo negozio. Quando entrammo in sala, con soddisfazione, la libreria era piena. Carlo attrasse l’attenzione di chi era intervenuto. Alla fine sia Carlo che Franco rimasero molto soddisfatti dell’esito della serata. Negli anni a venire, ogni volta che mi incontrava, Ferrucci mi ha sempre ricordato quella serata, che ha rappresentato l’unica presentazione di Carlo ai propri concittadini. Con un articolo dal significativo titolo “Bentornato Carlo Coccioli” apparso su Il Tirreno del giorno 8 giugno 1994, questo sì con la preventiva benedizione di Buti e del direttore Simeone, fermai l’evento sul giornale cittadino.

Non ero tuttavia l’unico ad essermi messo in testa di riavvicinare Coccioli alla città natale. E nemmeno il primo. Coloro che nel 1990 gli avevano conferito il premio Lions erano stati i battistrada. Enrico Galletta e Vincenzo Costa avevano formalizzato l’idea del premio al presidente Arnoldo Rossi. L’architetto Walter Martigli aveva materialmente comunicato allo scrittore, tramite la casa editrice Rusconi, la decisione presa. Ebbene, proprio Galletta e Costa, con Martigli ed altri, tra cui i fratelli Tullio e Romano Ristori di Firenze, Donatella Ciullini sempre di Firenze, sono le persone che ho avuto modo di conoscere, e frequentare, a casa Coccioli.

L’architetto Martigli era un uomo di cultura a tutto tondo. Un vero gentiluomo. Lo conobbi un pomeriggio nel salotto della casa di scali delle Ancore. Io, ripeto, ero solo un giovane cronista. Ma partecipavo a quella sorta di incontri culturali, o meglio chiacchiericci a tema libero, con la curiosità di chi ha tutto da imparare. Vi prendevo parte quando potevo, dato che ero impegnato con il giornale, eppure fu proprio in una di quelle occasioni che mi capitò di conoscere personalmente Martigli, che di persona ho incontrato solo un paio di volte, ma al quale mi ha legato l’impegno concreto per riavvicinare Coccioli alla sua città e per risolvergli alcune problematiche.

La cosa che maggiormente mi lusingava, di quei pomeriggi passati a casa di Coccioli, era che, nonostante la giovane età, ero accettato ed ascoltato da svariati ed illustri personaggi, tutti o quasi uomini e donne di elevata cultura e spessore. Mi sentivo apprezzato. Quell’esperienza mi è stata utilissima nella vita. Posso dire che mi abbia in qualche modo formato. In seguito, quando mi è capitato di trovarmi in qualche ambiente in cui sono stato emarginato, o non valorizzato, ho sempre pensato a quei pomeriggi a casa di Coccioli quando persone di riconosciuto valore, mi riservavano attenzione e considerazione. Le sensazioni vissute in quelle occasioni mi hanno spesso guidato ed ancora oggi mi guidano nel sapermi distaccare dalle manifestazioni di voluta indifferenza, compiute per ferire gratuitamente, aiutandomi a ricondurle nell’alveo di quello che sono: piccinerie.

In una di quelle chiacchierate Coccioli espresse il desiderio di regalare alla città di Livorno la sua “opera omnia”. Per quell’iniziativa, spontaneamente, si mise in moto più o meno tutto il gruppo. A me, com’era giusto che fosse in virtù della più giovane età, toccò di fare il “lavoro sporco”. Andai alla biblioteca Labronica, che era in villa Fabbricotti, per capire in modo discreto come si poteva fare. Mi venne detto che la cosa migliore era scrivere direttamente al Comune. L’architetto Martigli, dall’alto del suo prestigio, si fece carico di formalizzare la proposta all’amministrazione comunale. La lettera con cui Martigli informò della disponibilità di Coccioli a cedere tutta la sua produzione libraria alla città di Livorno, curiosamente, porta la data del 19 luglio 1994, ossia del giorno esatto in cui cadeva il cinquantesimo anniversario della Liberazione di Livorno. Non ho le prove, ma conoscendo Coccioli, ho sempre pensato che lui e Martigli, del quale apprezzavo l’acuta ironia, non abbiano scelto quella data a caso. Mi sono sempre chiesto se non volessero dire che il riappropriarsi di quel suo figlio illustre, per Livorno, doveva rappresentare una sorta di “liberazione” culturale.

Nella lettera inviata al Comune, l’architetto Martigli spiegò che Coccioli, originario di Livorno ma residente a Città del Messico, era intenzionato a cedere una copia di tutte le sue pubblicazioni, sia nelle varie lingue originali in cui erano state scritte, sia in quelle delle varie traduzioni, alla biblioteca Labronica. Era un modo, per Coccioli, per dire che lui, livornese, era pronto a fare qualcosa di concreto per la sua città. Tale offerta venne formalmente accettata dal Comune di Livorno con la clausola che il dono non doveva comportare alcuna spesa a carico dell’amministrazione. Un punto, questo, che come spiegherò generò anche delle incomprensioni. La delibera fu adottata all’unanimità dalla giunta il 29 dicembre 1994. Andai personalmente in Comune a chiedere copia di tale delibera. La conservo ancora oggi tra le mie carte.

L’estate del 1994, ad ogni modo, fu straordinaria. Dopo la presentazione alla Gaia Scienza, i rapporti con Coccioli e Javier si intensificarono. Lo stesso accadde con tutti coloro che gravitavano attorno allo scrittore. Non a caso l’idea di donare alla città di Livorno tutti i libri pubblicati in tutte le lingue, manifestata da Carlo, era stata sostenuta ed incoraggiata dai suoi amici e da coloro che frequentavano il suo “salotto”.

In quella straordinaria estate si giocarono negli Stati Uniti d’America i mondiali di calcio. A Carlo, sia chiaro, del football interessava men che meno. Eppure, in qualche modo, venne coinvolto pure lui nella calda estate italiana. E se i ricordi non mi ingannano, ma non ingannano, fu divertito ed incuriosito da quanto accadeva attorno a lui. Perché Coccioli era anche e soprattutto una persona curiosa. Inoltre, a partire da un episodio accaduto in occasione di quei mondiali, mi persuasi ancora di più della grande umiltà con cui si egli si poneva davanti alle persone e alle situazioni.

Il 28 giugno 1994, a Washington, l’Italia doveva affrontare il Messico. In casa Coccioli, con mia grande sorpresa, scoprì che c’era una certa fibrillazione. O meglio, una certa curiosità. Inizialmente credetti che ciò accadeva perché lui e Javer consideravano quella gara una specie di derby. Invece, quasi subito, mi resi conto che la curiosità nasceva dal fatto che in vista di quella partita, qualche giornale, forse messicano o forse italiano, gli aveva chiesto un articolo per presentare a suo modo la gara, chiedendogli anche una traccia per il titolo. Così lui, che non seguiva il calcio, sapendo che io ero un appassionato, mi chiese qualche dritta. Uno straordinario testimone del tempo come lui non aveva problemi a chiedere un consiglio a un giovane cronista. Anche questo era Coccioli.

In quel frangente, tuttavia, accadde un episodio che è rimasto indelebile nella mia mente. Mi fece infatti leggere o mi lesse, non ricordo, il suo articolo prima di spedirlo, chiedendomi un parere. Ero imbarazzato. Così, per uscire dall’impaccio, me ne uscì dicendo che se l’Italia non prendeva il Messico, il Messico avrebbe preso l’Italia... Dopodiché, parafrasando Enzo Jannacci, aggiunsi: Messico e nuvole. Lui allora, che mi osservava, mi guardò e disse, d’impatto: o Messico o nuvole! E quell’articolo, in effetti, uscì proprio con quel titolo, Messico o nuvole, o qualcosa del genere.

Per la cronaca, come si dice in gergo, quella partita la vidi a casa di Coccioli con lui, Javier e una mia amica. Finì uno a uno con l’Italia che si qualificò agli ottavi di finale. Carlo era divertito. Ironico. A fine gara, alzandosi di scatto dalla poltrona, commentò che non si usciva mai da questo infinito incubo metafisico. E sorrise. Sorrideva sempre.

Proprio in quei giorni degli amici mi dissero che un giovane regista fiorentino, insegnante di Lettere che si dedicava alla critica ma anche alla sceneggiatura cinematografica e televisiva, un professionista che era uscito con eccellente profitto dalla scuola di cinematografia di Roma, voleva conoscere Carlo in quanto aveva una sceneggiatura pronta, o quasi, ispirata od adattabile alla vita di Coccioli. Dunque, credendo di fare cosa gradita ad entrambi, lo presentai a Carlo. Lo portai da lui il giorno in cui, alla sera, si giocava la partita tra Italia e Nigeria. Egli gli lasciò la sua sceneggiatura. Uscendo, gli proponemmo di venire con noi a vedere la partita su un maxi-schermo, ma Carlo aveva già fatto uno sforzo enorme a seguire la partita contro il Messico, per cui era impensabile che la cosa potesse ripetersi. Noi, invece, finimmo la serata al circolo della Rosa, dove ci esaltammo con le gesta di Roberto Baggio e all’idea di come sarebbe potuta essere la pellicola, data la buona predisposizione mostrata da Carlo. Ma nei giorni successivi Carlo ci ripensò e del film non se ne fece di nulla. Un vero peccato, a mio giudizio.

Chi pensa che Carlo Coccioli non abbia tentato di inserirsi nella vita livornese, sbaglia. Carlo ci ha provato, eccome. Ed ha anche provato, con animo “lindo”, ad accettare, per capirlo, lo spirito dei livornesi. Lo facevano divertire le maniere delle negozianti di Livorno, in particolare della Venezia, schiette e colorite, che sperimentava quando, magari tornando a casa da una passeggiata, si fermava ad acquistare un oggetto, dato che la vera spesa la faceva Javier. Era un modo, il suo, per comprendere l’animo della città. Mi ha raccontato che una volta, vedendolo comprare soltanto un po’ di gorgonzola, una pizzicagnola esclamò: attento non le venga l’indigestione! E un’altra volta, dopo averlo visto aspettare il suo turno senza chiedere di essere servito subito dato che doveva prendere un solo oggetto, una lattaia gli disse con il tono tipico delle popolane livornesi: tutta questa fila per un po’ di latte?

Sorrideva divertito, Carlo, quando mi raccontava questi piccoli aneddoti. Sorrideva ironico. Chissà come doveva trovare buffo il modo dei livornesi, così distante da quello dei messicani, ma a dire il vero anche di molti altri italiani.

Eppure Carlo un collegamento diretto con Livorno ce l’aveva e risaliva all’infanzia. Con Carlo Duranti, detto Carlino, aveva un forte legame. Non ricordo bene se era cugino di primo o di secondo grado da parte di madre. Erano stati bambini insieme, anche se Carlino, a dire il vero, era più giovane di qualche anno. Carlino era titolare di un negozio in via Magenta, un bazar in cui potevi trovare qualsiasi cosa, oltre che riparare la radio o il televisore. Una volta Carlo mi portò da lui. Si abbracciarono commossi. Tra i due vi era un’antica e fraterna amicizia. Mi ha fatto piacere rivedere Carlo Duranti, dopo molti anni, quando nel marzo 2019 il Comune di Livorno ha conferito la Livornina d’Oro alla memoria di Carlo Coccioli. Se n’è andato, spero serenamente, nello scorso mese di febbraio.

Ai primi di agosto del 1994 ci salutammo, dandoci un appuntamento indefinito. Da lì a pochi giorni, infatti, io sarei andato in Spagna, mentre lui e Javier sarebbero tornati in Messico, dove sarebbero rimasti diversi mesi per organizzare il definitivo trasferimento a Livorno. Per motivi sanitari, però, fecero anche una parentesi negli Stati Uniti, ad Houston, Texas. I due rientrarono a Livorno ai primi di marzo del 1995.

Quando tornò, con amarezza e sorpresa, scoprì che stavano edificando un vero e proprio palazzo a pochi metri dalle uniche quattro finestre del suo appartamento.

Abito da quasi mezzo secolo in Messico, dopo aver vissuto anche in Francia, Libia e in altri paesi del Sudamerica, ma in Italia ho sempre voluto mantenere una casa, mi disse al suo rientro chiedendomi di denunciare il fatto su Il Tirreno. Per anni ne ho avuta una a Firenze, ma poi mi sono trasferito a Livorno, la mia città natale, perché qui mi piacerebbe trascorrere un po’ della mia terza età. Ma nessuno, quando due anni fa ho acquistato questo appartamento, mi ha detto che un giorno sarei stato murato vivo. Invece adesso, tornando dal Messico, trovo un palazzo a tre o quattro metri da casa mia. Ecco, io chiedo se tutto ciò è regolare. Ma è chiaro che se la palazzina è stata costruita rispettando la legge, la legge è aberrante.

Questo Coccioli mi disse in merito alla sorpresa, alla brutta sorpresa, che aveva trovato rientrando a Livorno dopo sette od otto mesi trascorsi tra il Messico e gli Stati Uniti. E questo è quanto scrissi nell’articolo “Mi hanno murato vivo nel mio appartamento” che pubblicai su Il Tirreno il 17 marzo 1995.

Coccioli non aveva scelto a caso gli scali delle Ancore. Il fatto di avere un appartamento in una strada denominata “scali” gli ricordava l’infanzia, la casa degli scali Novi Lena, che non era distante dal rione della Venezia. A volte, alla mattina, arrivava a piedi fino a piazza Mazzini, passando davanti al palazzo in cui era nato, quindi tornava indietro, si fermava alle fontane in bronzo del Tacca, che nell’articolo su Livorno aveva posto sotto la sua casa, quindi faceva ritorno sugli scali delle Ancore.

Coccioli ben conosceva la storia delle fontane realizzate da Pietro Tacca e ben sapeva che quelle livornesi erano copie. Gli originali, commissionati dal granduca Ferdinando II de’ Medici per essere collocati a Livorno, erano stati realizzati nel 1629. Una volta conclusi, però, furono ritenuti poco idonei al luogo e vennero destinati a decorare piazza Santissima Annunziata a Firenze. A Livorno, in seguito, furono poste delle copie.

Coccioli ben conosceva la storia delle fontane ed anche del monumento dei Quattro mori, che lo stesso Tacca aveva concluso qualche anno prima, tra il 1623 e il 1626, dopo che era stato avviato da Giovanni Bandini. Il complesso scultoreo, con quattro pirati incatenati alla base del monumento a Ferdinando I de’ Medici, celebra le vittorie dei cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano, fondato dal padre di Ferdinando, Cosimo I, sui saraceni. Con questo monumento si era anche voluto rendere omaggio a Cosimo, colui che aveva fatto di Livorno una città, uno dei principali porti del Mediterraneo.

Sui delfini, una volta che lo accompagnai, mi invitò ad osservare il disegno movimentato e ricco di dettagli a sfondo marino. Ciò segna il passaggio dallo stile manierista al barocco, disse. Si intendeva anche di arte. Sui Quattro mori aggiunse che il Tacca aveva utilizzato come modelli alcuni prigionieri delle galere che attraccavano al porto ed aveva riproposto le torsioni e le smorfie pur nell’eleganza dei movimenti. Sul piano politico, chiosò, la statua era una auto celebrazione del Granducato di Toscana.

Sulla questione della casa, Walter Martigli prese immediatamente posizione a favore di Coccioli. Era architetto. Era un uomo conosciuto ed ascoltato. Aveva la titolarità per fare tutto questo. Al sottoscritto, per l’articolo che pubblicai, disse che avrebbe consultato il progetto allegato alla concessione edilizia. Precisò che era possibile che si trattasse di una costruzione a norma di legge. Anche per questo invitò tutte le parti in causa al buonsenso, essendo il palazzo in costruzione quasi attaccato alle finestre di Coccioli.

Carlo inviò una lettera al sindaco di Livorno, Gianfranco Lamberti, per porre la questione direttamente alla sua attenzione. Accogliendo il suggerimento di Martigli, e più modestamente anche del sottoscritto, fece presente che la palazzina veniva costruita nel centro storico della città, ovvero in un luogo decisamente particolare, quindi che il rivedere il progetto, il contenere i lavori, era un qualcosa che avrebbe avuto valore per la città stessa e non solo per lui.

Visto che non voglio immaginare che il palazzo sia stato costruito in modo abusivo, commentò Coccioli con amarezza, mi contenterei di sapere che la palazzina non sarà innalzata ancora e che la terrazza non sarà resa agibile.

Non so cosa esattamente l’amministrazione di Livorno abbia risposto a Coccioli, sinceramente non ricordo, ma di certo le risposte, se ci furono, non furono positive. Gli inviti al buonsenso, al non procedere all’innalzamento della palazzina, caddero nel vuoto. Venne fatto presente, così almeno mi pare, che non si trattava di una nuova costruzione ma della riedificazione di un immobile abbattuto durante la guerra, cosa che rendeva possibile la ricostruzione in quel modo. Ma, ripeto, ciò è solo un ricordo.

Quel che è vero e documentato, invece, è che i problemi relativi all’abitazione crearono una situazione di conflitto con il Comune e che tali questioni, a lungo andare, determinarono il nuovo distacco di Coccioli da Livorno e dall’Italia.

Nel suo “Itinerario nel caos”, l’enorme volume che fece stampare in cinquecento copie, scrisse testualmente: nella mia Livorno natia mi si concede il premio Lions 1990, mi si chiama “illustre”, eccetera eccetera, poi quando finalmente, grato e rilivornizzato, compro un appartamento per stabilirmi lì, si violano tutte le leggi edilizie, praticamente mi si prende a calci nel sedere, per cui svendo tutto, regalo quel che posso, e me ne ritorno in Messico; grazie Livorno cara! aveva dunque ragione mio padre tarantino?

In realtà non erano state violate norme edilizie. Tuttavia l’amarezza di Carlo aveva buona ragione di esistere. Chi gli aveva venduto la casa, o quantomeno l’agenzia immobiliare che aveva effettuato la mediazione, avrebbe infatti dovuto informarlo del progetto in corso, perché è impensabile che al momento dell’acquisto dell’immobile, avvenuto grossomodo sul finire del 1992, nessuno sapesse di quanto era in previsione. Il torto lo fece chi sapeva ed aveva taciuto.

L’amministrazione comunale non intervenne né poteva farlo. Carlo tutto questo lo capiva. Anche per questo, a un certo punto, pose la questione sul buonsenso. Tuttavia, anche se non ho le prove, ritengo che se il sindaco lo avesse chiamato e gli avesse spiegato perché e percome non era possibile fare nulla, ascoltandolo, lui avrebbe accettato anche una situazione non favorevole, magari cercando un’altra casa in zona. Ma tutto ciò non avvenne e l’amarezza fu grande.

In vista delle elezioni amministrative del 1995 l’architetto Martigli, animo indipendente, venne contattato dal centrodestra locale per essere il candidato sindaco di quella coalizione in contrapposizione al sindaco uscente Gianfranco Lamberti del centrosinistra, nonché alla candidata dei comunisti, Edda Fagni, senatrice della Repubblica.

Il primo turno delle amministrative si tenne il 23 aprile 1995. Lamberti venne eletto senza dover ricorrere al ballottaggio. Martigli ottenne però quasi il trenta per cento dei voti e la Fagni si avvicinò al venti. Gli altri tre candidati, che rappresentavano i repubblicani, i radicali e un gruppo ambientalista, ottennero spiccioli di voti. Alla guida della città furono confermati Lamberti e la coalizione di centrosinistra.

Una tragedia, inaspettata, funestò quei giorni. L’architetto Martigli, infatti, morì il 5 maggio 1995. Niente faceva presagire tale dramma. Per un’incredibile e beffarda ironia del destino, l’architetto Martigli, che scherzando diceva che se ne sarebbe andato lo stesso giorno di Napoleone, fu rapito da un malore proprio il 5 maggio. La circostanza, che mette i brividi, me l’ha raccontata suo figlio, Carlo Martigli, noto scrittore. In ogni caso, in quei giorni, mi colpì molto il fatto che se Lamberti, invece di superare di poco il cinquanta per cento, si fosse fermato appena sotto e si fosse andati al ballottaggio tra Lamberti e Martigli, sarebbe occorso rivotare perché la consultazione, a causa della scomparsa di uno dei contendenti, doveva essere interamente annullata.

La morte dell’architetto Martigli lasciò in Coccioli un vuoto enorme, incolmabile, tanto che per la perdita dell’amico non voleva festeggiare il settantacinquesimo compleanno, che cadeva esattamente dieci giorni dopo. Non voleva. Non avrebbe voluto. Ma Javier gli fece una sorpresa. A sua insaputa, organizzò una festa. Chiamò gli amici più stretti. Quel giorno eravamo in sette, compresi i Coccioli. Tra questi, il sottoscritto, Tullio Ristori, Donatella Ciullini e Paola Ricci.

Oltre al sincero dolore, la scomparsa di Martigli lasciò aperte le due questioni che stavano a cuore a Coccioli e delle quali l’architetto si stava occupando: la casa ed i libri. E per le quali, senza l’amico architetto, Coccioli si rivolse soprattutto a me.

Per quanto riguarda la casa, feci presente la questione a un assessore che conoscevo, senza tuttavia risolvere nulla dato che, come detto, la costruzione era regolare. Per quanto riguarda i libri, invece, presi contatto con il direttore del sistema bibliotecario livornese, Duccio Filippi, con il quale, se la memoria non mi inganna, fu stabilito che degli operai sarebbero andati a prelevare le opere sugli scali delle Ancore.

Le questioni della casa e dei libri erano inevitabilmente intrecciate. Quanto stava accadendo sugli scali delle Ancore lo mal disponeva. In più quella clausola posta in calce alla delibera di giunta, che vincolava l’acquisizione dei libri al fatto che essa dovesse avvenire senza alcuna spesa per l’amministrazione, facendo ipotizzare che perfino le spese di trasporto dovessero essere a carico di Coccioli, faceva vivere allo scrittore una sgradevole situazione che egli trovava irrispettosa per non dire degradante. Regalava la sua opera omnia e il dono veniva condizionato al fatto che le spese di trasporto dovessero essere a carico del donatore... Solo l’intesa trovata con il dottor Filippi sciolse il nodo.

Coccioli non era un uomo di sinistra, anche se sul tema dei diritti umani, sociali e civili, era sicuramente una persona all’avanguardia. Tuttavia, per cultura ed educazione familiare, per storia personale, non apparteneva alla sinistra, o quantomeno non alla sinistra di classe. L’ambiente in cui era nato e vissuto, in cui si era formato, era di stampo liberale. Io invece ero intriso di ideali ugualitari di ispirazione socialcomunista. Eravamo diversi, molto diversi. I miei studi universitari in Storia erano ancora freschi.

Sapevo in ogni caso che aveva avuto un passato da partigiano. Lo sapevo perché me lo aveva detto lui. Era stata una delle prime cose che mi aveva raccontato, quando avevo rivelato di aver letto qualche pagina de “Il cielo e la terra”.

Richiamato alle armi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il conseguente schieramento dell’Italia contro la Germania, Coccioli si era unito alle formazioni partigiane sull’appennino Tosco-emiliano. Poco dopo, però, era stato catturato dai tedeschi, che inizialmente lo avevano condannato a morte ma che poi lo avevano recluso nella prigione di Bologna, da dove era fuggito. Per tale episodio, a guerra finita, gli era stata conferita la medaglia d’argento al valor militare. Anche perché, durante quei giorni, aveva tratto in salvo diverse persone.

Tra le persone che aveva salvato, vi era un commerciante napoletano di nome Mario Grauso. Quel signore era il padre di Nicola Grauso, detto Niki, editore di Videolina e all’epoca anche dell’Unione Sarda, il primo giornale in Europa a dotarsi già nel 1994 di un sito internet. Un’amicizia, come diceva Carlo, che si era protratta nel tempo. Ad imperitura gratitudine, dato che Coccioli gli aveva salvato la vita, il signor Grauso, in prossimità di ogni Natale, inviava a Coccioli degli incredibili pacchi colmi di ogni leccornia.

Riesce a scovarmi ovunque sia, mi disse una volta, rievocando tale ricordo. Mi manda le cose più strane, incredibili, grasse. Io lo ringrazio ma di esse ne mangio assai poche.

Ma torniamo alla politica e al confronto su queste tematiche. Tutto nacque sul finire del 1995. Un giorno gli dissi che a seguito di un’intera mia pagina su Il Tirreno, con l’articolo principale intitolato “E adesso, avanti Savoia?”, era accaduto che il direttore di un periodico di Pisa, sul suo giornale, mi aveva accusato di avere impostato ad arte quei servizi contro il rientro in Italia della famiglia Savoia, eventualità della quale allora si iniziava a parlare. Le accuse di quel giornalista erano oggettivamente infondate. In primo luogo perché quanto da me scritto aveva l’obiettivo di dar voce all’opinione pubblica e non erano espressione, come lui insinuò, di un progetto politico od editoriale studiato a tavolino. In secondo luogo perché attaccare un collega su un giornale diverso da quello su cui il collega si è espresso è un comportamento alquanto discutibile. Il punto era che il direttore di quel periodico, evidentemente, era un intollerante conservatore a cui infastidiva fortemente il dover prendere atto che la pubblica opinione non gradiva il ritorno dei Savoia.

Partendo da quanto accaduto raccontai a Carlo il fatto nella convinzione che egli, medaglia d’argento della Resistenza, avrebbe sostenuto la mia posizione. Invece, sorprendendomi, pur considerando scomposto il comportamento di tale giornalista, mi disse che, in ogni caso, comprendeva la sua reazione perché ai monarchici non veniva concessa adeguata voce ed esprimendo un pensiero critico ma non negativo sulla monarchia e sugli ex reali d’Italia.

Livorno, per lui, era fiele e miele. Nonostante la questione della casa, nonostante i libri, era curiosamente attratto dalla città che gli aveva dato i natali. Vorrei essere livornese, mi disse una volta. In che senso, chiesi io. Lo sei. Ma lui chiarì: sono attratto ma anche respinto da questa città in cui, in fondo, ho vissuto solo pochi anni, da piccino e da vecchio. Usò proprio queste parole. Di Livorno, aggiunse, mi attrae la schiettezza, il suo essere anticonformista, ma non mi piace quando queste caratteristiche tracimano in irruenza e sfrontatezza. Questo mi ha detto.

Un giorno d’estate del 1995, fine estate, con Carlo e Javier andammo a Montenero. Ci eravamo già stati l’anno prima, una volta, dalla famiglia Costa. Ma era stata, quella, una visita mirata. Non si era avuto il tempo di visitare il borgo collinare. Così, appunto, un giorno di fine estate del 1995 portai Javier e Carlo a Montenero. Ci soffermammo al Santuario e prendemmo un caffè a un bar di piazza delle Carrozze. Era una bella giornata di sole. Volle vedere, ancora una volta, gli ex voto. Tuttavia la cosa che più lo colpì fu il Famedio. Rimase affascinato dal fatto che a Livorno vi sia una struttura destinata alla sepoltura o al ricordo dei concittadini illustri. Leggendo i nomi delle personalità che lì riposano, o di quelli che sono ricordati, mi disse: mi piacerebbe un giorno avere una piccola targa in questo Famedio.

Non ho ancora affrontato, in questo ricordo, la questione della sua omosessualità. Non è un caso. Infatti, con me, ha affrontato raramente questa tematica. Solo una volta, poco prima che tornasse via, si entrò nella questione, mi pare a partire dal romanzo “Davide”. Anche in quella occasione, però, il tema non fu troppo approfondito. Del suo impegno a favore dei movimenti gay ho appreso da letture esterne e da alcuni documenti privati e lettere che mi ha lasciato e che conservo piuttosto che da affermazioni fatte al sottoscritto. Ho personalmente avuto la sensazione che, per quanto non facesse mistero del suo orientamento sessuale, egli tendeva a non farsi identificare con quello.

Era una giornata piovigginosa, tipicamente invernale, quando poco prima del Natale 1995 lo accompagnai all’aeroporto di Pisa per tornare definitivamente in Messico. Era molto amareggiato, dispiaciuto. Sapeva che quella era la cosa giusta da fare, ed infatti dal suo punto di vista lo era, ma sapeva che era anche una sorta di sconfitta. Il tentativo di ricongiungersi con le proprie radici non si era concluso come avrebbe voluto. Il ritorno a Livorno si risolveva con una sconfitta, l’ennesima, anche se, a ben vedere, egli non avrebbe potuto vivere a Livorno come in nessun’altra parte, se non nella rarefatta Città del Messico, dove non a caso aveva posto la sua residenza, perché lui, come egli stesso diceva, in ogni luogo era “altrove”.

Il giorno in cui tornò in Messico, prima di portarlo all’aeroporto di Pisa, feci fare a lui e Javier il giro automobilistico di tutto il territorio di Livorno, da Quercianella al Calambrone. Mi chiese di attraversare il centro e lo accontentai passando da via Magenta, davanti al negozio di Carlino, dove tuttavia non volle entrare perché, disse, lo aveva già salutato e comunque odiava gli addii. Poi mi chiese di vedere ancora una volta la casa in cui era nato ed io esagerai, portandolo non solo sugli scali Novi Lena, ma ovunque, dal ponticello sul Chioma che a sud di Quercianella segna il confine tra Livorno e Rosignano allo Scolmatore dell’Arno che a nord traccia il confine tra Livorno e Pisa. Solo dopo, lo portai all’aeroporto, dove un gran senso di vuoto, appena arrivati, mi assalì. Lo stesso accadde a Carlo e Javier. Eravamo tutti commossi.

Qualche giorno prima di tornare in Messico, con mio grande stupore, Carlo decise di regalarmi gran parte dei libri che aveva nella sua casa di scali delle Ancore e diversi oggetti di artigianato messicano, tra cui una testa Maya e delle tazzine per lo xocoatl, una bevanda al cacao di origine Azteca, che non ho mai usato e che dovrò affrettarmi ad usare.

Eppure il ricordo più prezioso che Carlo mi ha lasciato non è materiale. E’ la reciproca amicizia, data e ricevuta in modo disinteressato, nata e sviluppatasi a dispetto di molteplici differenze e che si è alimentata nel segno della stima e del rispetto, dell’accettazione reciproca e dall’essere attratti, entrambi, da un certo modo di intendere la scrittura.

Lui sosteneva che rivedeva nel mio il suo modo di scrivere. Lo diceva lui, non io. Lo riferisco solo perché lo ha anche messo nero su bianco, non per vanagloria, altrimenti starei zitto. Ricordo che rimase piacevolmente sorpreso dalla raccolta di racconti “Tempo presente” e dal romanzo breve “Supposizioni di un cronista”, tanto che alla prima riservò una bella dedica.

Ma la cosa che mai scorderò la fece il 16 marzo 1995. Dallo scatolone che gli aveva appena inviato la Rusconi, tirò fuori una copia del suo libro di memorie “Tutta la verità”, uscito in quei giorni, e su una pagina bianca scrisse: “A Marco Ceccarini augurandogli la realizzazione dell’avvenire letterario che si merita. Con l’amicizia affettuosa di Carlo Coccioli”.

Anche queste belle parole, che in quel periodo furono per me di grande stimolo ed incoraggiamento, conservo tra i ricordi più cari di Carlo Coccioli, livornese di Città del Messico.

Livorno, 12 maggio 2020