La decisione di migrare dipende da vari fattori tra cui la necessità di trovare migliori condizioni di vita, la capacità o meno di adattarsi ai cambiamenti nel Paese di origine o, al contrario, in quello in cui si pensa di arrivare, la capacità e la possibilità di spostarsi e la buona riuscita o meno del viaggio.

Tra questi, uno dei freni principali che impediscono o ostacolano l’effettiva migrazione risulta essere la scarsità di risorse economiche, in particolare per la fascia della popolazione che spesso risulta maggiormente colpita dai cambiamenti ambientali o dai conflitti socio-politico derivati da questi ultimi. E’ proprio questa tipologia di persone, che molte volte ha difficoltà a scappare dal proprio Paese, che si ritrova intrappolata e impossibilitata a muoversi dall’area in crisi (Türk et al., 2015[i]). Questi individui che avrebbero l’esigenza di spostarsi altrove sono esposti ad alti gradi di vulnerabilità.

A questo proposito il caso del Kenya, centro economico, finanziario e logistico dell'Africa orientale, risulta emblematico. Con una popolazione di circa 48 milioni di abitanti, Il Kenya è uno dei paesi africani etnicamente più diversificati. La terra è la principale fonte di sostentamento per le comunità locali con circa il 75% della popolazione del Kenya che lavora almeno a tempo parziale nel settore agricolo e nell’allevamento. L’uso continuo dello sfratto e del conseguente spostamento forzato di persone risultano essere strumenti indiretti per impoverire alcune comunità, escluderle politicamente, sostenere il potere di altre e reclamare risorse non proprie (Albertazzi, 2018[i]). Queste situazioni, che derivano dalla storia coloniale del Kenya, sono alla base di molti casi recenti di violenza e di conflitto socio-economico nel paese, e risultano essere comuni anche in altre aree del mondo dove si presentano condizioni molto simili. Tra queste:

il caso delle comunità Mapuche (Figura 4.1) in Cile e Argentina è un altro esempio di come spesso le popolazioni indigene, oggi così come nel corso della loro storia, siano state e siano ancora estromesse dai loro territori d'origine da multinazionali (Figura 4.2) e/o da governi autoritari in risposta alle logiche capitaliste e consumistiche, e via via costretti ad occupare terreni sempre più marginali, degradati, poveri di risorse naturali e poco adatti alla loro sopravvivenza;

Figura 4.1 - Donne Mapuche durante la consegna di un terreno alla loro Comunità (da: WIkipedia Commons)

Figura 4.2 - Manifestazione del dissenso contro l'accaparramento dei territori Mapuche in Argentina da parte del Gruppo Benetton (autore: J.A. Pérez/ANCAP).

il Congo vive una situazione di estrema fragilità politica causata dai conflitti legati alle risorse minerarie di cui dispone il paese (Figura 4.3), che causano milioni di morti e sfollati da decenni. Ad oggi sono 7.355 i permessi censiti per lo sfruttamento minerario in questo paese (ArcGIS Hub, 2019). Ma l'importanza attribuita all'estrazione di coltan, diamanti, petrolio, stagno, rame, piombo, cobalto e altri minerali, così come alla produzione di energia idroelettrica o di legname, porta a ignorarne le cause, rendendo tale conflitto armato invisibile al resto del mondo ormai da vent'anni.

Figura 4.3 - Distribuzione delle risorse minerarie in Congo (modificato da: Lapegna, 2019).

Questi casi, come tanti altri documentati dall'Uppsala Conflict Data Program (UCDP), il principale fornitore mondiale di dati sulla violenza organizzata e il più antico progetto di raccolta dati in corso per la guerra civile, sono la prova di come sempre più individui al mondo siano esposti a condizioni di vulnerabilità crescenti e sempre più gravi.

Se a ciò si aggiunge la continua crescita demografica di questi paesi, queste popolazioni arrivano al collasso e quindi si trovano costrette a muoversi verso zone più industrializzate, accrescendo così l'urbanizzazione di aree già di per sè in gravi situazioni di disequilibrio ambientale, sociale, economico e politico. Accade così che gli stessi soggetti, già vulnerabili e forzati a emigrare a causa dei cambiamenti ambientali, o dai conflitti socio-economici derivati, in atto nei loro zone di origine, si ritrovino in condizioni di vulnerabilità anche nelle aree di destinazione, soprattutto se si tratta di centri urbani dei paesi in via di sviluppo. Qui infatti rischiano ulteriori dislocamenti a causa degli effetti combinati dei cambiamenti ambientali e del sovrappopolamento, e di una diffusa carenza di una qualche forma di organizzazione urbanistica, sanitaria e sociale dei centri urbani (Türk et al. (eds), 2015[i]). La mappa interattiva pubblicata sul sito del giornale The Economist rende possibile visualizzare gli spostamenti e le previsioni della popolazione urbana mondiale dal 1950 al 2030, testimoniando come l'urbanizzazione abbia già assunto, e si prevede che assumerà, dimensioni impressionanti in tempi molto rapidi.

L’urbanizzazione è infatti uno degli effetti principali degli spostamenti interni o interregionali di popolazione, causati dalla limitatezza delle risorse di chi emigra, ma porta a dover affrontare delle sfide spesso gravi tanto quanto i problemi causati direttamente dai cambiamenti ambientali (Figura 4.4). Infatti le aree urbanizzate, verso cui si riversa la maggior parte dei migranti ambientali, sono spesso più vulnerabili, sia a livello di degrado ambientale che per fattori socio-economici, rispetto alle zone di origine (Balbo, 1992[i]). Le condizioni alle quali sono sottoposti i migranti che si riversano nei centri urbani sono caratterizzate da emarginazione, condizioni igienico-sanitarie estremamente precarie, sovraffollamento e basso inserimento a livello lavorativo, che portano alla nascita di tensioni sociali e conflitti armati, ma spesso alla base ci sono forti competizioni per l’accaparramento di risorse naturali di base, prima fra tutte l’acqua, il cibo e lo spazio abitativo. Se poi a questa situazione si sommano stress ambientali quali inondazioni, aumento di temperatura, cicloni o terremoti i problemi vengono esacerbati dalla stretta convivenza di individui a volte molto diversi anche culturalmente (Gubbiotti et al., 2012[i]).

Figura 4.4 - Previsioni per il 2025 della crescita demografica nei maggiori agglomerati urbani rilevanti per il cambiamento ambientale e la migrazione rispetto al 1970 (da: Foresight, 2011[i]).

Tra gli esempi più famosi di questo tipo di urbanizzazione troviamo le grandi città del Sud America, come Quito, Buenos Aires, San Paolo (Figura 4.5). Qui migliaia di sfollati arrivano dalle zone rurali, spesso marginali, dove, per via della desertificazione, del dissesto idrogeologico o dell’erosione dei suoli, le popolazioni autoctone si vedono private delle loro fonti primarie di sostentamento (agricoltura e allevamento) con un rischio per la loro sicurezza alimentare.

Figura 4.5 - Favelas a San Paolo in Brasile (da: Wikipedia Commons).

Stesso meccanismo si ripete in città come Bangkok (Figura 4.6), Nairobi (Figura 4.7) e tante altre nel continente africano e nel sud-est asiatico (European Commission, 2013[i]).

Figura 4.6 - La periferia di Bangkok, tra baracche e povertà (autore: C.H. Calvo).

Figura 4.7 - Le baraccopoli nella città di Nairobi (autore: A. Signori).

Il movimento residenziale, ovvero lo spostamento definitivo della propria residenza dal luogo di origine ad un altro, non è dunque espressione solo di una libera scelta, ma piuttosto dettato da fattori ambientali che obbligano a fare tale scelta. La dinamica interazione fra decisione individuale e contesto socio-economico in cui si vive fanno sì che le opportunità di mobilità e migrazione siano diseguali fra individui e gruppi (Calzolaio, 2016[i]).

A questa difficoltà si aggiunge quella che riguarda la definizione dello status giuridico internazionale di un migrante ambientale che, ad oggi, è ancora poco chiara e presenta numerose lacune. Infatti non esiste un riconoscimento eguale per tutti e un'applicazione univoca da parte dell'intera comunità internazionaleche garantisca protezione e sostegno a questa tipologia di migranti. Al contrario invece viene normato lo status di rifugiato politico dall'UNHCR sin dal 1951.

La difficoltà nell’assegnare lo status di rifugiato al migrante ambientale risiede soprattutto nell’assenza del fattore della persecuzione. Gli sfollati interni mantengono i loro diritti, anche se solitamente questi risultano essere già scarsi, ma non è detto che ricevano un’adeguata assistenza umanitaria da parte dei propri governi, il che li rende vulnerabili a volte alla pari dei profughi ambientali che varcano il confine nazionale. Per ottenere il riconoscimento giuridico per i migranti ambientali sarebbe prima necessario intraprendere una analisi dettagliata delle situazioni di degrado degli ecosistemi causate dall’uomo, i cosiddetti dissesti antropici degli ecosistemi (Calzolaio, 2016[i]), ai quali sono connesse appunto le migrazioni forzate, che potrebbero far rientrare gli individui coinvolti nella categoria di rifugiati. Chiaramente ci possono essere eventi naturali che provocano fenomeni migratori che non sono direttamente adducibili alle attività umane (es. eruzioni vulcaniche o terremoti), ma la gestione della popolazione prima (prevenzione), durante (mitigazione) e dopo (adattamento) questi eventi resta comunque responsabilità dei governi e necessita di strumenti legislativi funzionanti ed efficaci che tengano conto delle caratteristiche dei territori e delle comunità che ci abitano e abbiamo l’obiettivo di mitigarne gli impatti e di prevenirne le cause.

L'azione dei governi deve prevedere di garantire delle dignitose condizioni di esistenza anche a coloro che, invece di migrare, decidono (o sono costretti) di co-esistere con i cambiamenti ambientali, e tra questi con quelli climatici, cercando un nuovo equilibrio attraverso l’adattamento. Questo è ciò che viene indicato con il termine resilienza, cioè un adattamento al sistema di origine, una reazione, una possibilità di continuare a funzionare a dispetto di occasionali perturbazioni di una certa entità (Calzolaio, 2016[i]).

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BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Albertazzi S., (2018). Conflitti socio-ambientali nella foresta Mau (Kenya). In: Fuschi M. (ed.), Barriere/Barriers. Società di Studi Geografici, Memorie Geografiche NS, 16: 189-194.

Balbo M., 1992. Povera grande città. L'urbanizzazione nel Terzo Mondo. Studi Urbani e Regionali, Franco Angeli Editore, Milano, pp. 224.

Calzolaio V., 2016. Ecoprofughi. Migrazioni forzate di ieri di oggi e di domani. NdA Press, Rimini, pp. 230.

European Commission, 2013. Climate change, environmental degradation, and migration. Commission Staff Working Document, EU, Bruxelles, pp.36.

Foresight, 2011. Migration and Global Environmental Change: Future Challenges and Opportunities. The Government Office of Science, Final Project Report, London, pp. 234.

Gubbiotti M., Finelli T., Peruzzi E., 2012. Profughi Ambientali: Cambiamento climatico e migrazioni forzate. Dossier Profughi, Legambiente, pp. 42.

Türk V., Corliss S., Riera J. et al. (eds), 2015. UNCHR, the Environment & Climate Change. Updated version, UNHCR, pp. 20.

Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNCHR) - Italia: https://www.unhcr.org/it/

ArcGIS Hub: https://hub.arcgis.com/datasets/

Dinamo Press: https://www.dinamopress.it/

Environmental Justice Atlas: https://ejatlas.org/

Geopolitica: https://www.geopolitica.info/

Ius in Itinere: https://www.iusinitinere.it/

Limes - Rivista Italiana di geopolitica: https://www.limesonline.com/

Pressenza: https://www.pressenza.com/it/

The Economist: https://www.economist.com/

Uppsala Conflict Data Program (UCDP): https://ucdp.uu.se/